L’utilità delle neuroscienze nel coaching: un punto di vista oggettivo tra suggestioni e marketing
Negli ultimi anni, il termine “neuroscienze” è diventato una sorta di lasciapassare per qualsiasi disciplina che voglia apparire moderna, autorevole e scientificamente fondata. Anche il mondo del coaching ne è stato profondamente influenzato: corsi, libri e metodologie si adornano spesso di riferimenti al cervello, ai neuroni specchio, alla neuroplasticità, inserendo le neuroscienze nel coaching anche a sproposito e a volte in modo poco scientifico.
Ma la domanda che dovremmo porci, in modo onesto e professionale, è: quanto incidono davvero le neuroscienze sulla pratica concreta del coaching?
Nozioni neuroscientifiche affascinanti, ma irrilevanti nel coaching operativo Share on X
In molti percorsi formativi, si trovano dettagli neuroscientifici che, per quanto scientificamente corretti, non hanno alcuna ricaduta concreta nella pratica di coaching. Alcuni esempi:
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Conoscere i nomi specifici dei neurotrasmettitori (dopamina, serotonina, GABA…) non migliora la capacità di ascolto, di alleanza o di domanda trasformativa.
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Comprendere come si propagano gli impulsi elettrici lungo l’assone, o le fasi del potenziale d’azione, ha poco o nulla a che fare con la facilitazione del cambiamento comportamentale in un coachee.
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Studiare la struttura delle sinapsi, i meccanismi molecolari dei canali ionici, o il ciclo dell’ATP mitocondriale nel neurone è materiale da neurobiologi, non da coach.
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Addentrarsi nella localizzazione corticale delle funzioni cerebrali (es. “la corteccia prefrontale dorsolaterale è implicata nell’inibizione comportamentale”) può fornire una curiosità intellettuale, ma non cambia l’efficacia del tuo intervento.
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Infine, usare in modo disinvolto espressioni come “ormoni dello stress”, “cervello rettiliano” o “area limbica” travisa, banalizza o decontestualizza, generando più confusione che chiarezza.
Il rischio è quello di trasformare il coaching in una parodia di neuroscienza, perdendo il contatto con la relazione umana viva e concreta.
Cosa può funzionare delle neuroscienze nel coaching: i veri punti di intersezione Share on X
Un coach informato può trarre beneficio da alcune nozioni neuroscientifiche quando queste servono a rafforzare la cornice epistemologica del cambiamento, a sostenere la motivazione del coachee o a facilitare la comprensione di fenomeni interiori in modo semplice e funzionale. Non si tratta di diventare neurobiologi, ma di comprendere come certi delle neuroscienze nel coaching, possano alimentare un dialogo trasformativo, senza tecnicismi superflui.
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Neuroplasticità: sapere che il cervello è in grado di modificare le proprie connessioni neurali rafforza l’idea che nessun comportamento è “per sempre”. Questo può aumentare la speranza e la fiducia nel cambiamento, sia nel coach che nel coachee.
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Reti neurali dell’abitudine e dell’attenzione: comprendere che le abitudini sono schemi neurali consolidati e non tratti immutabili della personalità, aiuta a impostare percorsi di disattivazione automatica e sostituzione consapevole.
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Stati di flusso e coerenza emozionale: la neurofisiologia del “flow” o della coerenza cardiaca mostra come corpo e mente siano connessi in stati performanti e armonici. Questo può supportare tecniche di centratura, presenza e regolazione emotiva nella sessione.
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Funzione predittiva del cervello: il cervello tende a interpretare la realtà non tanto in base a ciò che percepisce, ma in base a ciò che prevede. Questo concetto, preso dalla predictive coding theory, è utile nel coaching per spiegare come le aspettative e le credenze influenzino la percezione e l’azione, e perché ristrutturare convinzioni profonde, ed aspettative, può cambiare l’esperienza stessa della realtà.
Rischi di una “neuro-mania” con le neuroscienze nel coaching Share on X
Introdurre le neuroscienze nel coaching, può essere stimolante e utile, ma se viene utilizzata in modo eccessivo travisa il senso stesso della relazione trasformativa.
Parlare costantemente del cervello, dei neurotrasmettitori, delle aree corticali coinvolte nei processi decisionali, può dare l’illusione di precisione e profondità, ma in realtà spesso allontana l’attenzione dalla persona concreta che si ha di fronte.
Il secondo rischio è l’uso decontestualizzato delle neuroscienze, ovvero il prendere concetti validi in ambito accademico o clinico e trasportarli nel coaching senza adattarli al contesto, al linguaggio e soprattutto alla finalità relazionale e trasformativa.
Un’informazione scientifica, per quanto corretta, se non è inserita in modo pertinente nel processo, non facilita il cambiamento: distrae o complica.
Infine, molti coach si lasciano sedurre dal cosiddetto effetto “wow”, ovvero da quella fascinazione che certi termini tecnici esercitano sull’ascoltatore. Parlare di “neuroplasticità”, “predizione neurale” o “circuiti limbici” può dare un’aura di autorevolezza, ma quando manca una reale comprensione e una connessione funzionale con ciò che si sta facendo in sessione, si trasforma in spettacolo più che in accompagnamento.
Tutto ciò, se non governato con consapevolezza, può distorcere profondamente l’essenza del coaching: da arte relazionale basata sull’ascolto e sulla co-creazione, il coaching rischia di diventare una performance tecnico-scientifica, dove la persona viene analizzata anziché accolta, e la relazione si raffredda dietro una cortina di concetti mal integrati.
Di seguito alcuni rischi che si manifestano quando le neuroscienze vengono usate senza discernimento:
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Mitizzazione del cervello: si passa dal coaching relazionale al coaching “neurale”, attribuendo al cervello un potere totalizzante quasi magico. Il rischio è quello di sostituire l’umanità dell’incontro con un tecnicismo che crea distanza, anziché prossimità trasformativa. Il coach finisce per parlare del cervello anziché dialogare con la persona.
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Riduzionismo: l’esperienza umana viene compressa in spiegazioni neurochimiche, come se ogni emozione fosse solo il risultato di un neurotrasmettitore. Questo approccio riduce la complessità psichica e simbolica dell’essere umano a meri processi biochimici, ignorando l’influenza di vissuti, relazioni, cultura e significati soggettivi.
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Approccio freddo e distaccato: il coachee rischia di essere trattato come un “sistema da riprogrammare” invece che come un soggetto in cammino. L’ipertrofia della componente neuro può inaridire l’alleanza, ostacolando l’empatia e la sintonizzazione che sono invece il cuore del processo trasformativo.
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Trasferimento dell’autorità al concetto scientifico: il coach perde il contatto con la propria intuizione e competenza esperienziale, delegando il valore del proprio intervento alla “validazione scientifica”. Si crea una dipendenza da un sapere esterno, oggettivo, che indebolisce la padronanza e la fiducia nelle dinamiche umane del processo.
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Confusione nel coachee: un linguaggio eccessivamente tecnico o neuroscientifico può creare distanza, frustrazione o senso di inadeguatezza nel cliente, che si sente più spiegato che compreso. Invece di facilitare il cambiamento, il coach rischia di introdurre concetti non integrabili che alimentano confusione cognitiva o resistenza emotiva.
Conclusione: meglio un coach consapevole che un coach “neuroscientifico” Share on X
La vera forza del coaching è nella relazione, nella presenza, nella qualità delle domande e nell’alleanza trasformativa. Le neuroscienze possono offrire qualche spunto utile, ma non sostituiscono l’essenza del coaching. Anzi, un eccesso di neuroscienze nel coaching può illudere il coach di avere un controllo sul processo che in realtà non ha, portandolo fuori dal suo campo d’azione.
Questo approccio rischia di diventare non professionale, perché confonde ruoli, linguaggi e competenze: un coach non è né un medico, né un neurologo e rimanere fedeli al proprio mandato professionale significa anche saper riconoscere quando una conoscenza, per quanto affascinante, non è funzionale alla relazione d’aiuto.
Alfredo M. Molgora
Trainer Coach e Pnl Q.I.E
Magnetista Emerito
Hypnotic Counselor
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